martedì 6 agosto 2013

Francesca Businarolo: i cittadini devono essere liberi di esser...


Signor Presidente, buongiorno, cari colleghi, cogliamo volentieri l’invito del sottosegretario allo scambio di opinioni dato che si parla proprio di questo. La libertà di opinione è un diritto fondamentale che deve trovare la giusta tutela. L’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo recita, al comma 1, che «ogni persona ha diritto alla libertà di espressione». Tale diritto include anche la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.
Uno dei principi richiamati dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nella prima sessione del 14 dicembre 1946, sottolineava come la libertà di manifestazione del pensiero, oltre a rappresentare uno dei diritti fondamentali dell’uomo, costituisca la pietra angolare sulla quale poggiano tutti gli altri diritti e libertà fondamentali consacrati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Si tratta però di un diritto non affatto scontato, almeno in Italia. Nella classifica di Reporter senza frontiere del 2013 sulla libertà di stampa, il nostro Paese risulta in 57o posizione su 179 Paesi, prima dell’Ungheria e seguita da Hong Kong. Secondo la stessa ONG che ha come obiettivo la difesa della libertà di stampa, in Italia, dove la diffamazione deve essere ancora depenalizzata, si fa un pericoloso uso delle leggi bavaglio. Infine, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha sempre sottolineato il ruolo di cane da guardia esercitato dagli organi di stampa da cui consegue la loro funzione di riferire al grande pubblico su fatti di interesse e ha considerato le sanzioni a carico dei giornalisti come un’ingerenza nell’esercizio di tale diritto. La Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene tale ingerenza legittima solo a tre condizioni: che questa sia prevista dalla legge; che sia un mezzo necessario per perseguire finalità legittime nel contesto di una società democratica; che sia proporzionata al fatto.

In merito a quest’ultimo requisito, la Corte europea dei diritti dell’uomo riconosce come criterio di giudizio la natura e la misura delle sanzioni, anche se non tratta in modo specifico delle diversità tra pene detentive e pecuniarie.
  Come precisato nella relazione del Comitato per la legislazione, molte sentenze recenti hanno constatato una violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e in ciò hanno generalmente fatto leva sulla mancanza del requisito della proporzione. È stato, infatti, più volte considerato eccessivo il peso economico della sanzione sulla persona accusata di aver diffamato il soggetto assunto a obiettivo della propria cronaca o critica. Nella sentenza Ormanni contro Italia (17 luglio 2007), tra i criteri di giudizio per stabilire la giusta proporzionalità della pena si individua il caso in cui al diffamato sia stata concessa opportunità di replicare.
Secondo i dati ISTAT, i condannati con sentenza irrevocabile per diffamazione a mezzo stampa sono aumentati dai 108 del 2007 ai 124 del 2010. Sono numeri che non tengono conto dell’ulteriore fattispecie della diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato. È inaccettabile che ci sia ancora, nel nostro ordinamento, la minaccia di un’ulteriore pena, che questa proposta di legge intende ora abolire. È inutile ricordare l’effetto disincentivante e autocensorio che la disciplina in materia di illeciti e reati di opinione, tanto quella di natura penale che quella di natura civile, produce sui destinatari delle sanzioni e delle richieste risarcitorie, anche a prescindere dall’effettiva rigorosa applicazione delle norme.
  Al riguardo, nella comunità internazionale si parla generalmente di chilling effect o di self-censorship. D’altronde, nel resto d’Europa, prevale una tendenza ben diversa. Dal 2009, nel Regno Unito la diffamazione a mezzo stampa non è più reato. La svolta rispetto al passato è avvenuta grazie alla Coroners and justice act, che ha rappresentato un’ampia riforma e ha introdotto una depenalizzazione di tutti i reati che riguardano la sfera dell’opinione e della diffamazione.

L’Inghilterra e Galles, dunque, sono messi sulla strada della difesa totale della libertà di espressione, con l’intenzione di estendere le stesse tutele anche al panorama dei media digitali.
  Negli USA la legge sulla diffamazione tra il fondamento del Common law inglese si inserisce nel primo emendamento della Costituzione, in una linea di continuità con un pensiero che ha radici due secoli fa. Per essere diffamante, il contenuto deve essere falso; per essere diffamante il contenuto falso deve essere motivato da intenzioni malevoli. E in trentatré Stati su cinquanta, il reato non è nemmeno perseguito. Insomma, lo strumento della querela per diffamazione non deve mai trasformarsi in un bavaglio.
Ma alle porte del nostro Paese, in Svizzera, la regolamentazione della fattispecie diffamatoria è molto diversa da quella italiana. Qui chiunque, comunicando con un terzo, incolpa o rende sospetta una persona di condotta disonorevole o di altri fatti che possono nuocere alla reputazione, è punita, a querela di parte, con una pena pecuniaria fino a centottanta aliquote giornaliere. Mai il carcere. Il giornalista, inoltre, non incorre in alcuna sanzione se prova di aver detto o divulgato cose vere oppure prova di aver avuto seri motivi per considerarle vere in buona fede.
  Parliamo dei Paesi scandinavi che, da anni, vantano ogni tipo di primato per quanto riguarda il grado di libertà di stampa e di espressione. Come ha certificato anche l’ultimo rapporto della Freedom House, che colloca Norvegia, Svezia e Finlandia sul podio ideale dell’informazione senza bavaglio. In Svezia, per capirci, la legge sulla libertà di stampa e di espressione è considerata fondamentale al pari di quella sull’ordinamento costituzionale e sull’ordine di successione dinastica. La diffamazione è punita con una sanzione solo pecuniaria.
  Pertanto, anche alla luce della normativa esistente nei Paesi elencati, si ritiene doveroso porre all’attenzione del Parlamento la necessità di intervenire urgentemente per rivedere il dettato normativo della parte sanzionatoria degli articoli 594 e 595 del codice penale in materia di ingiuria e diffamazione e la normativa in materia di diffamazione prevista dall’articolo 10 della legge sulla stampa.
La proposta del MoVimento 5 Stelle qui presentata prevede anche una novità rivoluzionaria, per certi versi: le sanzioni per le liti temerarie.

  Negli Stati Uniti il giornalista deve controllare una sola cosa, che quel che dice sia vero. In Italia, invece, il mestiere di giornalista è diventato una vera via crucis tra denunce civili e penali. In Italia si può essere condannati anche se si racconta un fatto vero. Basta usare parole troppo aspre o notizie segrete o atti pubblici, ma non pubblicabili. E non c’è alcuna differenza tra una critica dura e un fatto falso, si rischia la diffamazione in entrambi i casi. In caso di condanna, che prevede il pagamento di danni, le somme le decide il giudice, a discrezione, anche se il cronista si è soltanto sbagliato e poi si è scusato, con tanto di rettifica pubblicata. Ma non basta: i danni patrimoniali si possono pure chiedere in sede civile e provocare una condanna al risarcimento per il giornalista e per l’editore. Viceversa, chi promuove una causa civile, non rischia. Può chiedere risarcimenti per milioni di euro e, se poi il giudice gli dà torto, non deve pagare nulla. I fatti hanno da tempo smentito che sia la rettifica della notizia o più generalmente la stessa a riportare alla luce la verità.
L’obiettivo di chi si sente diffamato è un altro. Gli offesi non cercano la verità delle parole, bensì cercano di intimidire i giornalisti e di incassare quanto più denaro se ne possa ricavare. Accade che uno strumento di tutela di un diritto fondamentale dell’uomo, come quello della propria reputazione, finisce con il diventare strumento di attentato e lesione di un altro diritto fondamentale dell’uomo, quello della libertà di manifestazione del pensiero. Al fine di far fronte all’enorme proliferare di processi penali e civili crescenti in numericità del risarcimento richiesto, appare quanto mai opportuno che vengano stabilite delle sanzioni economiche nei confronti di chi proponga querele infondate o avvii liti temerarie. Evidentemente, viene fatto un uso temerario e minatorio della disciplina sui reati di opinione. È un’offesa alla difesa della disciplina dell’onore.

La liquidazione del risarcimento del danno per diffamazione è demandata al giudice penale, all’esito della condanna, o al giudice civile, previo accertamento incidentale del reato. A questo danno si aggiunge, secondo la legislazione vigente, un’ulteriore sanzione economica, ossia la riparazione pecuniaria che viene giustamente abrogata con proposta di legge oggi in discussione. Non è vero, viene solo aumentata, scusate. La quantificazione del danno, non essendo sottoposta a criteri omogenei nell’attuale legislazione, viene rilasciata completamente alla discrezione del giudice, anche per quel che riguarda il suo limite massimo. D’altra parte, fissare, come si era proposto, il limite massimo di 30 mila euro non garantirebbe un trattamento omogeneo nelle varie testate giornalistiche che hanno strutture organizzative e dimensioni notevolmente diverse.

Sono a dir poco marginali anche i costi per chi agisce a fronte di un elevatissimo rischio per il destinatario dell’azione. Insostenibile dal punto di vista economico, intollerabile dal punto di vista della libertà di espressione delle proprie opinioni e dell’esercizio della propria professione. Stiamo parlando di un rischio di azione risarcitoria da centinaia di migliaia di euro a fronte di un prezzo irrisorio riconosciuto per un singolo articolo.
  Pertanto, il MoVimento 5 Stelle propone di novellare il codice di procedura civile integrando la recente disciplina delle liti temerarie mediante l’aggiunta dell’articolo 96-bis al fine di scoraggiare le cause infondate, confini ricattatori, che notoriamente sono quelle attivate dai potenti a scopo intimidatorio. Prima di descrivere compiutamente la novità prevista dall’articolo 96-bis, ricordiamo cos’è l’articolo 96 del codice di procedura civile, aggiornato dall’articolo 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009, n. 69, che disciplina la responsabilità aggravata e stabilisce che se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre alle spese, al risarcimento dei danni che liquida anche d’ufficio nella sentenza.

L’articolo 96 sanziona, con la condanna al risarcimento dei danni patiti dalla controparte, il cosiddetto illecito processuale caratterizzato, circa l’elemento materiale, da un contegno relativo ad una controversia di cognizione cautelare od esecutiva, cioè serbato nel corso della lite oppure ad essa connesso, e circa l’elemento soggettivo, dal fatto che l’autore riveste necessariamente la qualità di parte di un processo. La civiltà moderna si è formata sul riconoscimento di alcune garanzie valide per tutti. Purtroppo oggi il gioco dei potenti è diventato quello di strumentalizzare queste garanzie a fini personali. Ecco, quindi, che il diritto può essere utilizzato per seppellire chi di mestiere fa il controllore del potere. Di per sé, si potrebbe pensare che non ci sia niente di patologico nella possibilità di essere citati in giudizio da chi si sente diffamato. Se il giornalista ha lavorato con coscienza, questo gli sarà riconosciuto dalla sentenza e vincerà la causa.
  Il fatto è, però, che nel sistema italiano, essere trascinati in tribunale, specialmente in cause civili, significa già di per sé perdere, ancora prima dell’esito del giudizio. Il problema non è solo la durata dei processi civili e il loro costo, ma anche il fatto che chiunque può intentare una causa civile anche senza una vera ragione. Da questo punto di vista, quindi, è meglio subire una querela per diffamazione che una causa civile. Nelle cause penali c’è un magistrato che valuta preliminarmente se procedere con il processo o meno; in un processo civile, invece, c’è la possibilità di trascinare in giudizio chiunque, anche senza motivazione, perché chi ti porta in tribunale non pagherà altro se non le spese legali; quindi, se chi cita in giudizio è un uomo potente che vuole intimidire non mette in atto nessuna riflessione sulle conseguenze che può avere per il giornalista l’essere trascinato in tribunale.
Come si può distinguere una causa pretestuosa da una legittima ? Il problema è che non essendoci una fase di filtro preliminare nel processo civile una causa va avanti anche anni prima che si possa accertarne la pretestuosità. Una soluzione è stata raggiunta con la riforma del 2009 e con l’articolo 96 del codice di procedura civile; con tale riforma, come detto prima, si è introdotta la possibilità di punire la lite temeraria, ma chi strumentalizza le cause ? Lo diciamo tranquillamente, sono due categorie di persone: i potenti che non vogliono che si parli di loro e i furbi che cercano di ricavare dei soldi. Questi ultimi approfittano di un passaggio in televisione che magari li ha disturbati e cercano di fare in modo di raggranellare qualche soldo; i furbi rispetto ai grandi potenti sono spiccioli, ma fanno comunque numero. Di fronte al giornalista di inchiesta le nuove intimidazioni si fanno con le querele; la libertà di stampa non è dire ciò che si vuole, è la libertà di raccontare i fatti quando si hanno le evidenze. Per intimidire ed evitare che la trasmissione torni sull’argomento, poi, i giornalisti vengono trascinati in tribunale con cause milionarie.

Colleghi, oggi, in Italia, il racconto dei fatti presuppone un fastidioso eroismo, allora per poter limitare l’uso delle azioni risarcitorie per finalità intimidatorie devono essere valutati nuovi strumenti, come quello che vuole introdurre il MoVimento 5 Stelle con l’articolo 96-bis al codice di procedura civile che permetterà una riflessione seria ed etica da parte della persona che si sente diffamata. Il pensiero è libero, ma quando i giornalisti scrivono devono usare prudenza, soprattutto quando un’inchiesta tocca argomenti scomodi e poteri forti. A volte la prudenza non basta; è vero, garantire il controllo e la critica del potere è faccenda da equilibristi, costretti a muoversi su un terreno insidioso. Bisogna contemperare il diritto di cronaca e la tutela della personalità umana e dell’onore. Se è corretto che chi si sente diffamato possa querelare, è pur vero che in un sistema giudiziario come quello italiano, in cui le cause hanno tempi lunghissimi e costi esorbitanti e che permette abusi e strumentalizzazioni, si dovrebbero creare degli strumenti idonei come potrebbe essere l’introduzione dell’articolo 96-bis, secondo il quale, nell’ambito dei giudizi di risarcimento del danno per fatti illeciti connessi alla violazione dell’onore, della reputazione e dell’immagine, anche commerciale, il giudice, quando rigetta, anche parzialmente, la domanda risarcitoria, possa condannare l’attore a versare al convenuto un importo non inferiore alla metà del danno richiesto. Se decide di rigettare parzialmente la domanda può condannare l’attore a versare al convenuto un importo pari alla metà della differenza tra il danno eventualmente accertato e quello richiesto. Il giudice si astiene dal pronunciarsi d’ufficio quando, se proposta, rigetta l’eventuale domanda riconvenzionale, quando l’accertamento della sussistenza dell’illecito risulti di particolare complessità oppure quando la quantificazione del risarcimento richiesto risulti fondata su parametri obiettivi adeguatamente documentati.

Per ripristinare quelle garanzie che hanno formato la civiltà moderna, senza che queste divengano ostaggi dei potenti che le utilizzano a fini personali, è giunto il momento di mettere un freno al ricorso smodato in sede legale, anche quando non si presenta il minimo presupposto.
  Mi avvio a concludere; uno dei pilastri della democrazia è proprio rappresentato dall’informazione e dalla libertà di stampa. Ogni regime totalitario o governo dittatoriale, per prima cosa, pone dei limiti alla libertà di espressione controllando i media e reprimendo la libertà di associazione e di assemblea.
  Quello che vogliamo è ottenere attraverso la democrazia la garanzia che ogni cittadino partecipi in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico. E affinché tale condizione si verifichi i cittadini devono essere liberi di essere informati e avere accesso alla conoscenza in modo completo e oggettivo. Tutti devono poter usufruire di un’informazione libera e senza bavaglio (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

Nessun commento:

Posta un commento