venerdì 23 agosto 2013

Pubblico impiego, la grande bufala della stabilizzazione dei precari

Tra le prove che dovrà sostenere il Governo nel prossimo Consiglio dei ministri c’è sicuramente quella del pubblico impiego. Una prova ardua, sulla quale ministri ed esperti si stanno esercitando da tempo. Fino ad ora sono riusciti a mettere solo qualche pezza – proroga dei precari, blocco dei contratti soprattutto per la parte salariale, tagli alle nuove immissioni nella scuola attraverso l’allungamento del pensionamento dei senior – che ovviamente è risultata peggiore del buco. Letta e D’Alia vogliano mettere la firma in calce ad una delle riforme della pubblica amministrazione più cruente che la storia della Repubblica ricordi. A fronte di centinaia di migliaia di uscite con il prepensionamento oneroso ci sarà una incerta stabilizzazione di non più di 50mila precari. Intanto, in due anni, tra il 2011 e il 2012, il numero degli occupati è calato di 120mila unità (-3,5%), soprattutto dovuto al blocco del turnover.
La fisima del fiscal compact Del resto, come ricordano sempre i sindacati di base, l’esempio della Grecia sta lì a dire che fiscal compact e pubblico impiego sono due termini incompatibili. Anche se alla fine i numeri “dovessero tornare”, chi non tocca gli statali non è considerato abbastanza virtuoso. Non vale tirar fuori cifre sul numero nettamente inferiore di dipendenti pubblici rispetto a Francia e Germania, né lo scarso livello della qualità dei servizi che alla fine ricade sul prodotto interno lordo. La filosofia della “spending review” sta lì come una mannaia al servizio del “taglio lineare”. Potenziata, se possibile, da un altro tormentone neoliberista, quello della privatizzazione. Insomma, le due cose stanno insieme: più si taglia, più peggiorano i servizi e più sarà facile privatizzare. E’ quello che accadrà nella sanità, per esempio, visto che tra ticket e liste di attese ormai la differenza con il settore privato è pressoché nulla.
sciopero generale
Un turn over pilotato Precari e non, le due “anime” del pubblico impiego, così, stanno insieme anche per un banale motivo aritmetico: il numero dei lavoratori con un contratto che possiamo per facilità definire “atipico” è comparabile, politicamente, a chi, tra il personale stabile, può essere messo fuori o attraverso la mobilità o con il prepensionamento. Sulla prima categoria si sa che a spanne, tolto il grande capitolo della scuola, nella pubblica amministrazione ci sono qualcosa come 114mila, come minimo. Secondo altre stime addirittura il doppio, però. Comunque sia, nel “Dl del Fare” vengono indicati in 200mila gli over 57 della pubblica amministrazione che possono essere messi nella “dirittura d’arrivo” del prepensionamento oneroso. Ma secondo la Ragioneria generale dello Stato, quelli con almeno 55 anni sono oltre 760mila, il 60% sono donne. A loro sarebbe ridotto il trattamento previdenziale del 10% rispetto a quello che prenderebbero a fine carriera. Senza contare che qualche migliaio in più possono uscire dall’azzeramento delle province (160mila addetti) e dall’unificazione dei piccoli comuni: infatti, se da una parte è prevista la ricollocazione, dall’altra c’è la prospettiva della mobilità per chi non accetta. Nella bozza messa a punto dal ministro D’Alia l’assunzione dei precari sarebbe direttamente legata ai pensionandi, con una parziale uscita dai vincoli di blocco del turn over secondo una precisa tabella di marcia: gli enti nei quali la spesa per il personale non supera il 50% delle spese correnti potranno assumere con contratti di qualsiasi tipo nel limite del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno prima (per il 2014), nel limite del 50% per il 2015, e del 100% a decorrere dal 2016. Questo, ovviamente, si sposa con il superamento dei paletti imposti dalla legge Fornero.
Precari, figli e figliastri Tuttavia, la “rivincita” dei precari, la cui stabilizzazione, però, non supererà i 50mila e, bene che vada, non comincerà prima del 2015 e sarà tutta subordinata ai tempi di indizione e svolgimento dei concorsi. Non si capisce bene, poi, se le migliaia di contratti a somministrazione e di collaborazione coordinata e continuativa siano nel calcolo o meno. Il ministro, infatti, nel definire la possibilità di una “quota riservata” ai precari nei concorsi pubblici, parla di contratti a tempo determinato di almeno tre anni (negli ultimi cinque). Ancora è incerta la sorte di tutti gli addetti, variamente collocati nei lavori socialmente utili, oppure, come è il caso della maggioranza di chi sta nel settore della ricerca, partite iva e incarichi come gli assegni di ricerca.
Gli ultimi tra gli ultimi C’è, inoltre, una categoria che può senz’altro definirsi come “gli ultimi tra gli ultimi”. Sono gli addetti dell’indotto privato della pubblica amministrazione. Si tratta di un settore che abbonda nella sanità e nella scuola (pulizie). Stiamo parlando di svariate decine di migliaia di persone. Che fine facciano questi nessuno lo sa nemmeno adombrare. E’ per questo motivo che Usb chiede che ci sia la sanatoria totale. Anche perché ricostruire i singoli percorsi è praticamente impossibile. In molti casi, fa notare Claudio Argentini, del coordinamento nazionale del Pubblico impiego, “le carriere contrattuali sono cambiate repentinamente sfociando in esiti tipo soci delle coop. Si può venire a capo ma con tempi biblici ma solo se si mettono insieme i dati dell’Inail con quelli dell’Inps”. Che sia in vista una estenuante lotta sui numeri lo dimostra il caso della scuola: il ministro Carrozza a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico è pronta a immettere in ruolo poco più di undicimila docenti, la Cgil risponde subito: “Sono del tutto insufficienti”. Anche in questo caso, la platea effettiva sarebbe almeno il doppio.

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